LA CORTE D'APPELLO DI GENOVA
    Ha  emesso  la seguente ordinanza nella controversia promossa dal
senatore Taviani Emilio contro Riva Massimo.
Premesso che:
    I)  all'udienza  21 giugno 2001 ha trattenuto per la decisione la
causa  promossa  da  Taviani Paolo Emilio contro Riva Massimo, con le
conclusioni
    Per l'appellante:
        «Piaccia  alla  Corte ecc.ma e, per quanto di sua competenza,
all'ill.mo  signor  Consigliere  istruttore, disattesa ogni contraria
istanza  ed eccezione, previe le pronunce e le declaratorie tutte del
caso...
        annullare  la  sentenza  gravata  e, in riforma della stessa,
dichiarare il sen. prof. Paolo Emilio Taviani non responsabile per le
opinioni  espresse  nei  confronti  del  sig.  Massimo  Riva  perche'
pronunciate nell'esercizio del mandato politico attribuitogli e, come
tali, coperte dalla prerogativa dell'insindacabilita' di cui al primo
comma  dell'art. 68  della Costituzione, in conformita' a quanto gia'
dichiarato  dal  Senato  della  Repubblica nella seduta del 14 maggio
1998;
    rigettare  l'istanza  del sig. Massimo Riva con la quale e' stato
chiesto a codesta ecc.ma Corte di sollevare conflitto di attribuzione
tra potere legislativo e potere giudiziario.
    Con vittoria di spese, diritti ed onorari di entrambi i gradi del
giudizio».
    Per l'appellato:
        «Piaccia  all'ecc.ma Corte, contrariis reiectis, preso e dato
atto   che   l'appellato   non  accetta,  in  quanto  necessario,  il
contraddittorio  su  domande  che  avrebbero dovuto essere svolte nel
giudizio  di  primo  grado  e  sui  capi  del  gravame avversario non
sufficientemente motivati, cosi' giudicare:
          a) in  via preliminare, dichiarare la inammissibilita' e la
improcedibilita'  dell'appello  proposto  dal  sen.  prof.  Paolo  E.
Taviani  contro la sentenza n. 2.757/1996 Reg. Sent. Tribunale civile
di  Genova e cio' per violazione degli artt. 326, 327, 330, 342 e 345
c.p.c.;
          b) sempre  in  via  preliminare: dato atto che il giudice a
quo  ha  attribuito efficacia offensiva e denigratoria del patrimonio
morale  del  concludente non solo alla frase che addebita allo stesso
l'intento  di  attentato  alla istituzione repubblicana nella persona
del  Presidente della Repubblica, ma anche «alla insinuante qualifica
di  `miliardario' e che su detto capo della sentenza l'appellante non
ha  svolto  motivi  di  gravame,  comunque  non  idonei  agli effetti
dell'art. 342  c.p.c., dichiarare che su detto capo della sentenza si
e'  formato  il  giudicato,  occorrendo  anche  a sensi dell'art. 329
c.p.c.,  statuendo  sull'ammontare del danno risarcendo in parte qua,
nella misura che verra' ritenuta di giustizia, da devolversi a favore
della  Associazione  fra  i  familiari  delle vittime del disastro di
Ustica;
          c) dichiarare,    conseguentemente,    non    efficace   la
declaratoria  di immunita' parlamentare (insindacabilita) invocata ex
adverso  e  concessa  dal  Senato  della Republica con la delibera 14
maggio  1998, delibera priva di efficacia ed operativita' di fronte a
decisione dell'A.G. passata in giudicato;
          d) nel   merito:   respingere   l'appello  introduttivo  al
presente  grado  del  giudizio  e,  quindi, confermare la sentenza di
primo grado, in ogni sua parte. Con applicazione dell'art. 91 c.p.c.;
          e) sulla  questione della dichiarata insindacabilita' delle
opinioni  (frasi  ingiuriose)  espressa  dal  sen. prof. Paolo Emilio
Taviani,  l'appellato  dr.  Massimo  Riva,  chiede che l'ecc.ma Corte
d'appello  sollevi,  ex  artt. 134  della  Costituzione e 37 legge 11
marzo 1953, conflitto di attribuzione tra potere legislativo e potere
giudiziario,  per  avere il Senato esorbitato dai limiti di esercizio
della potesta' parlamentare prevista dall'art. 68, primo comma, della
Costituzione,  dando  atto,  in  quanto  necessario, che il Senato ha
valutato  solo  in parte le frasi ingiuriose (opinioni) formulate dal
sen.  P.E.  Taviani  e  di  cui  e' causa. Per l'effetto, disporre la
sospensione  del  giudizio in corso e la trasmissione degli atti alla
ecc.ma  Corte  costituzionale, formulando quesito ritenuto opportuno,
finalizzato  alla declaratoria di nullita' della delibera del senato,
assunta in data 14 maggio 1998, essendo la valutazione della condotta
del  sen.  P.E.  Taviani estranea alla previsione di cui all'art. 68,
primo comma, della Costituzione».
    II)  Il  5  luglio  2001  ha  inoltrato alla Corte costituzionale
ricorso di questo tenore:
        «1.  -  Il  senatore  della Repubblica italiana Massimo Riva,
introducendo  le  ragioni  del suo procedere contro il senatore Paolo
Emilio  Taviani,  che  conveniva  innanzi  al  Tribunale  di  Genova,
esponeva che questi, intrattenendo il 24 febbraio 1992 i quadri della
Democrazia  Cristiana  di  Busalla  sul  tema "Dalla Gladio alla pace
garantita",  presente  la stampa, aveva affermato: "Il caso Gladio e'
venuto  fuori  per  il  complotto  di  De  Benedetti,  Scalfari  e il
miliardario  della  Sinistra  indipendente  Riva contro il Presidente
Cossiga.  Si  e'  andato  a cercare in tutti i vecchi documenti ed e'
saltato   quello   firmato  da  Cossiga  nel'64  perche'  allora  era
sottosegretario alla Difesa".
    Ad   avviso  dell'attore,  l'allocuzione  conteneva  accuse  che,
offensive  di  per  se',  assumevano  piu' marcato rilievo per la sua
carica  di  parlamentare,  membro di quello stesso organo legislativo
che il complotto avrebbe dovuto rovesciare.
    L'accusa  era  inoltre  grave perche' legava il complotto a forze
finanziarie,  di  stampa  e politiche; era contraria alla ispirazione
culturale  e  politica  dell'accusato;  proveniva  da  chi, potendosi
gloriare  di  responsabilita'  ministeriali ed istituzionali, rendeva
credibile l'affermazione.
    Ed   ancora,   implicando   l'accesso   a   documenti  riservati,
consultabili  solo  per  mezzo  di  una condotta illecita, colpiva un
soggetto  la  cui  vita di parlamentare e giornalista era ispirata al
senso dello Stato.
    Su  tali premesse, e sul rilievo che le affermazioni non potevano
giustificarsi  per  dialettica  politica,  chiedeva  risarcimento del
danno.
    Il convenuto non si costituiva.
    Conclusa  l'istruzione, con sentenza n. 2757/1996 pubblicata il 5
ottobre,  il  Tribunale considerava accertato l'episodio e fedelmente
riportata  la  frase  diffamatoria. Osservava sul piano obiettivo che
l'accusa,  di  voler attentare al Presidente della Repubblica, era la
piu' grave concepibile contro Stato e Costituzione, perche' li minava
nel suo organo piu' rappresentativo. Ne rilevava sul piano soggettivo
la particolare odiosita' presupponendo che parlamentare di specchiata
onesta'    fosse    penetrato   in   documenti   segreti.   Coglieva,
nell'attribuzione   di  ricchezze  miliardarie,  note  allusive  alla
funzione parlamentare che gli le aveva procurate. Annotava come tutti
i   trascorsi   del   senatore  Riva  militassero  in  senso  opposto
all'accusa.  Concludeva per l'incidenza negativa, sulla persona e sul
politico, dell'accusa che il senatore Taviani, ripetutamente invitato
attraverso la stampa, non aveva provato.
    D'altro  canto, la frase non poteva legittimarsi col diritto alla
libera  manifestazione  del  pensiero,  mancando  i  requisiti  della
verita'  dei  fatti e della utilita' sociale della notizia. E poiche'
conteneva   gli  elementi  della  diffamazione  aggravata,  valutando
l'impatto sulla persona dell'accusato, giornalista e presidente di un
gruppo  parlamentare,  ed il prestigio di chi l'aveva formulata, vice
presidente del Senato, Ministro della difesa, Ministro degli interni,
riteneva  adeguata  alla  gravita'  dell'offesa il risarcimento di L.
100.000.000,  da  versare  all'associazione  tra  i  familiari  delle
vittime del disastro di Ustica, come richiesto dall'attore.
    Ha  interposto  appello il senatore Taviani, sostenendo trattarsi
di  opinioni  espresse  nell'esercizio  del mandato politico e quindi
insindacabili  ex art. 68 Cost. In punto, il tribunale aveva ignorato
il  d.l. n. 253/1996 ed in sua reiterazione i succesivi decreti 357 e
446  dello stesso anno, che gli imponevano di trasmettere copia degli
atti alla Camera di appartenenza.
    Comunque, la frase non poteva considerarsi diffamatoria.
    In  corso  di causa, il Senato della Repubblica ha trasmesso alla
Corte:
        1) la  proposta della Giunta delle elezioni e delle Immunita'
parlamentari  che  le  frasi  dell'on.  Taviani  fossero  considerate
"opinioni  espresse  da un membro del Parlamento nell'esercizio delle
sue   funzioni   e   ricade(ssero),  pertanto,  nell'ipotesi  di  cui
all'articolo 68, primo comma, della Costituzione";
        2) l'approvazione  della  proposta  da parte del Senato nella
seduta del 24 aprile 1998.
        L'appellato  oltre  che  sostenere  il passaggio in giudicato
della  sentenza  ladove considera offensivo il termine "miliardario",
ha chiesto che la Corte sollevi conflitto di attribuzione ex art. 134
Cost. e 37, legge n. 87/1953.
    Precisatesi  le  conclusioni,  la  causa e' pervenuta a decisione
all'udienza del 21 giugno 2001.
    Ritenuto che:
        1) L'oggetto  della  controversia  presuppone  l'esame  della
frase  pronunciata  dal sen. Taviani nella sua interezza. Non sarebbe
corretto  isolare  una  parola  dal  contesto, e d'altronde, se lo si
facesse   con   riferimento   all'attributo  "miliardario",  dovrebbe
concludersi che non e' offensivo.
    Va quindi escluso che per questa parte si sia formato giudicato.
        2) L'affermazione  del  sen.  Taviani,  sarebbe  lesiva della
onorabilita'  di  chiunque,  sia  perche' sottintende il tramare, sia
perche'  fa  intuire la ramificazione fra poteri forti, istituzionali
(un  parlamentare),  di  stampa  (il  direttore  di un quotidiano, E.
Scalfari),  finanziari  (De  Benedetti).  Ancor  piu' lo e' in quanto
indica  il  bersaglio  del  complotto  nella  figura  piu'  altamente
rappresentativa dello Stato.
    Ma  e' profondamente lesiva della personalita' di un soggetto che
di  fronte all'accusa non si pone piu' come privato, ma come soggetto
investito di una funzione pubblica fondamentale.
        3) Il  contesto  nel  quale  l'accusa e' stata formulata, non
consente  alla  Corte di escludere l'offesa in quanto - si sostiene -
espressione   delle   prerogative  della  funzione.  Non  rileva  che
l'incontro  fosse  riservato a quadri della Democrazia Cristiana, sia
perche'  erano  costituiti  da  numerose  persone  e cio' implica che
quanto  meno nel loro giudizio, il sen. Riva aveva tradito il proprio
mandato;  sia  perche'  quello che avevano appreso durante la seduta,
avrebbero   potuto   propalarlo   cosi'   ampliando  il  disdoro  del
parlamentare.
    Nemmeno  vale  sostenere  che  si era in campagna elettorale e la
frase  si  giustificava  con  la  competizione fra partiti di matrice
diversa.
    Per  rappresentare l'indegnita' di una persona a rappresentare il
popolo  in Parlamento, non e' ammissibile ledere l'onorabilita' di un
candidato,  per  di  piu'  parlamentare,  e deve quindi escludersi il
collegamento  delle affermazioni con la funzione di senatore dell'on.
Taviani.
    Deve  allora concludersi che la domanda formulata dall'attore nei
confronti dell'on.le Taviani non e' manifestamente infondata.
    Alla luce di tali ragioni, la decisione adottata dal Senato della
Repubblica  in  relazione  alla vicenda, non puo' essere condivisa. E
poiche'  essa  impedisce  di  procedere  oltre, ordina sospendersi il
giudizio promosso dal sen. Taviani Paolo Emilio contro il dr. Massimo
Riva,  e  Ricorre  alla Corte costituzionale perche' decida se esiste
conflitto fra la delibera adottata dal Senato il 14 maggio 1998 circa
la   insindacabilita'   delle  opinioni  espresse  dal  sen.  Taviani
all'indirizzo del sen. Riva, e l'oggetto del giudizio civile pendente
innanzi alla Corte di appello di Genova (RG 884/1997).
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
        Genova, addi' 5 luglio 2001
            Il Presidente relatore: dr. Michele Capasso».
    III) Con   ordinanza   n. 266/2002  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato inammissibile il ricorso non emergendo chiaro l'intento di
sollevare  conflitto  di attribuzione, e deducendosi, invece, da esso
la non manifesta infondatezza della domanda.
    Tanto  premesso,  convenendo  che  il  concetto  di non manifesta
infondatezza  contenuto in quel provvedimento, non era sufficiente ad
esprimere  la  volonta' della Corte, di poter valutare se la condotta
del senatore Taviani avesse contenuto diffamatorio;
    Osservato  che  la  Costituzione  della  Repubblica, all'art. 24,
riconosce  a tutti la possibilita' di agire in giudizio per la tutela
dei  propri diritti; fra i quali e' compreso quello alla salvaguardia
della  dignita'  del  nome  e  della persona, che il dr. Massimo Riva
ritiene lese;
    Ritenuto    che    l'esclusione   di   responsabilita'   statuita
dall'art. 68  della  Costituzione non e' affrancazione indiscriminata
del  parlamentare  dalle responsabilita' connesse alla violazione del
diritto  di terzi, ma solo tutela di uno dei mezzi attraverso i quali
si estrinseca il mandato parlamentare;
    Ritenuto  che  nella  specie  le  frasi  pronunciate dal senatore
Taviani  sembrano  collocarsi  fuori del paradigma costituzionale non
apparendo connesse al mandato parlamentare;
    Ritenuto  che  la  decisione del Senato, che ha valutato solo una
parte   delle   frasi   pronunziate   dal   sen.  E.  Taviani  incide
nell'esercizio del potere di azione riconosciuto dall'art. 24 Cost. e
nella   funzione   giurisdizionale   attribuita   a   questo  giudice
dall'art. 102 della Costituzione, perche' gli impedisce di verificare
l'esistenza  o  meno  del  torto in danno del dr. Riva Massimo, e con
cio'  lede,  attraverso  quella  delimitazione,  l'esercizio  del suo
potere;
    Visti gli artt. 134 Cost. e 37, legge 11 marzo 1953.